Verso #MacerataLoreto21 - seconda puntata

 

Abbiamo chiesto a Giancarlo, un caro amico, per anni impegnato come volontario al Pellegrinaggio, di raccontarci la sua esperienza nei mesi di malattia, cosa è accaduto in quelle lunghe giornate e quale contributo hanno dato alla sua vita di oggi.

 

Nei primi giorni di Novembre dello scorso anno ho contratto il Covid-19. 
Dopo poco tempo sono stato intubato e, nonostante le cure praticate, ho rischiato di morire: il 10 dicembre i medici del Covid Center di Civitanova Marche, dove ero ricoverato, hanno telefonato a casa avvertendo mia moglie – anch’essa colpita da Covid e da poco dimessa dall’ospedale – di prepararsi al peggio.
Insperatamente, però, c’è stata una reazione positiva del mio organismo, che ha dato miracolosamente segni di ripresa.
Dopo quasi sei mesi di ricovero in vari reparti ospedalieri ed in una struttura riabilitativa, alla fine di aprile sono stato dimesso per proseguire la convalescenza a casa.

Questo lungo periodo di malattia per me è stato innanzitutto la possibilità di prendere progressivamente coscienza che la vita mi è stata data, che non mi appartiene.
Stavo bene in salute, avevo tanti progetti e, anche se non si parlava d’altro da tanto tempo, non avrei mai pensato che quel virus potesse riguardare concretamente proprio me.
All’inizio lo ritenevo un piccolo incidente di percorso, che si sarebbe risolto in breve, come tante altre volte era capitato, invece nei giorni che passavano nessuna terapia risultava efficace e, ad un certo punto, quando mi è stato detto che sarei stato intubato, ho iniziato a prendere coscienza  di essere realmente in pericolo di vita.
Da qui uno stato di agitazione e di ansia, di dubbio che tutto potesse finire lì, senza una prospettiva di senso per me.
È stato proprio in quel momento che la mia visione nichilista è stata vinta da un fatto, da un segno per me molto importante: mentre stavano spostando il mio letto per trasferirmi al reparto di terapia intensiva, è comparso improvvisamente davanti a me il mio parroco, che è anche il responsabile della pastorale negli ospedali. Non so ancora se fosse lì per caso, per una combinazione, o se fosse stato chiamato da qualcuno; sta di fatto che, brevemente, mi ha ricordato l’efficacia attuale della grazia dei sacramenti e, con la celerità che lo caratterizza, mi ha dato l’assoluzione dai peccati e l’unzione degli infermi. 
È stato, per me, l’esperienza del ricevere concretamente un abbraccio dal Signore: ne è derivata la consapevolezza che la mia vita non è un mio possesso. In questo abbraccio mi sono sentito affidato e pacificato e sono entrato sereno al reparto, dove poi mi hanno intubato.     

Ho capito e sperimentato, in questo lungo periodo di ricoveri, che la vita è una ed unica. Non si può – né è umanamente conveniente – mettere  tra parentesi le cose che non ci vanno a genio e così pensare che la vita è solo quella prima del Covid o, sperando di guarire bene, quella dopo il ristabilimento totale post Covid. 
“La vita è adesso” diceva una canzone di Baglioni di parecchi anni fa: ho avvertito, pertanto, l’urgenza di poter vivere al meglio, senza sprecare nulla, quello che mi è stato dato da vivere in questi mesi.
Ricordo allora il cordiale rapporto con i medici, gli infermieri, gli OSS, i quali hanno condiviso le mie ansie e le mie sofferenze. Con molti di loro è nato un rapporto personale di stima e di confidenza, spesso abbiamo condiviso le nostre preoccupazioni, i problemi, la visione della vita.
Ricordo, poi, i rapporti nati con gli altri ospiti delle strutture di cura, in particolare nell’ultima fase della riabilitazione, dove erano facilitate le occasioni di incontro: con alcuni è nata una vera e propria amicizia, con la condivisione di letture e conversazioni, con l’incoraggiamento sui risultati delle terapie in atto, dando anche vita a momenti di svago (tornei di carte, pizza insieme…). 
Fondamentale importanza hanno avuto i rapporti con il mondo esterno, in un periodo caratterizzato dal divieto di contatti con parenti ed amici.
Mi hanno sostenuto, in particolare, i rapporti con la mia famiglia, sia pure limitati alle telefonate ed alle videochiamate. Pur nella sofferenza per il lungo distacco, mi hanno fatto realmente compagnia gli audio e le videochiamate di mia moglie, della mia figlia che vive a Ravenna e che, a gennaio, ha partorito il suo terzo figlio; le canzoni che un’altra mia figlia – con la collaborazione di una infermiera – inviava sul mio telefonino nei giorni più duri, quando non potevo parlare, a motivo della tracheotomia subita, né potevo muovermi in alcun modo; la collaborazione della mia terza figlia, laureata in giurisprudenza, per portare avanti, a distanza, il lavoro del mio studio di avvocato in questi mesi di assenza forzata. 
Mi ha molto sostenuto anche la compagnia di tanti amici, colleghi ed anche persone che non conoscevo o che avevo perso di vista (compagni di liceo…). 
In particolare è stata per me un forte richiamo la recita quotidiana, via Zoom ed insieme a tanti amici, del Rosario; la compagnia di tanti volti che recitavano insieme questa preghiera ha sostenuto la mia speranza di vita, di una vita che mi è stata ridonata e che ora desidero piena ed utile. 
Ho avvertito, infatti, che la speranza non poteva derivarmi da un vago ottimismo (“andrà tutto bene”), ma dalla certezza con cui alcune persone, che vedevo mie compagne nel collegamento, chiedevano a Dio, attraverso la Madonna, la guarigione mia e di tanti altri malati.
Mi è venuto, allora, alla mente il titolo del Pellegrinaggio Macerata-Loreto di quest’anno: “Quando vedo te, vedo speranza”: la mia speranza non poteva reggersi su un mio sforzo di autoconvincimento, ma era generata dal guardare volti concreti (quella infermiera che mi incoraggiava a non fossilizzarmi sul mio stato d’ansia, perché il miglioramento sarebbe venuto col tempo e, stupito, la guardavo serena al lavoro pur con una importante forma di diabete; quegli amici che mi facevano compagnia con i loro messaggi Whatsapp o con il Rosario via Zoom…).     

Sono pieno di gratitudine per questa vita ridonata.
Molti mi dicono: “Bravo ce l’hai fatta. Hai sconfitto il virus”. In realtà io non ho fatto proprio niente: avrei potuto anche morire senza accorgermi di nulla. Mi sono ritrovato nuovamente in vita ed ora avverto la bellezza e la responsabilità  di fronte a  questa nuova occasione che gratuitamente mi è stata data, la bellezza di vivere intensamente ogni istante.